Tutela dei diritti umani

Trattamento inumano e degradante in carcere: l‘evoluzione giurisprudenziale nell’applicazione dell’art. 35 ter Ord.Pen.  

22 giugno 2016

 

Con la nota sentenza Torreggiani ed altri emessa in data 8 gennaio 2013 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sono stati sospesi tutti i ricorsi proposti dai detenuti italiani in relazione all’articolo 3 della CEDU per le condizioni disumane e degradanti della detenzione subita nella nostre carceri ed è stato concesso allo Stato italiano un anno di tempo per adottare le misure necessarie a porre rimedio alla situazione di sovraffollamento carcerario.

 

Il decreto legge 26 giugno 2014 n. 92, convertito con modificazioni nella legge 11 agosto 2014 n. 117, ha inserito nell’ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1974, n. 354) i “ rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati ”.

Con la citata sentenza, infatti, è stata accertata la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo in quanto i ricorrenti (detenuti in vari istituti penitenziari italiani) hanno dimostrato di aver subito un pregiudizio morale in relazione alle precarie condizioni di detenzione dovute in particolare al sovraffollamento carcerario, alle dimensioni delle celle, alle condizioni fatiscenti delle infrastrutture degli istituti di pena ed alla carenza dei servizi.

Con questa pronuncia, emessa con la procedura della sentenza pilota, è stata affermata la responsabilità dello Stato Italiano, che è stato condannato a corrispondere ai ricorrenti, a titolo di equa riparazione, somme di denaro di diversa entità (a secondo delle differenti durate del pregiudizio subito) ed è stata formalmente dichiarata l’esistenza di un problema sistemico del sistema carcerario italiano.

Il detenuto ha dunque ora la possibilità di richiedere, mediante reclamo al magistrato di sorveglianza, il risarcimento del danno per i periodi di detenzione in carcere in cui ha subito un trattamento inumano e degradante come cristallizzato dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. Detto risarcimento avviene in forma specifica con la riduzione della pena residua da scontare in misura di un giorno ogni dieci giorni di pena espiata in condizioni di detenzione inumane e degradanti non inferiori comunque a quindici giorni. Se il numero dei giorni da detrarre risulta superiore al residuo pena da espiare, è prevista la corresponsione di 8 euro a titolo di risarcimento del danno per ogni giorno ulteriore che non può essere detratto dal fine pena.

Chi ha terminato di espiare la pena deve rivolgere la domanda al Tribunale Civile per ottenere il risarcimento del pregiudizio subito sempre in misura di 8 euro al giorno entro sei mesi dalla sua liberazione.

 

Riflessioni sul primo biennio di applicazione della norma in esame

Nell’anno 2015 la Corte Europea ha dichiarato irricevibili tutti i ricorsi presentati contro lo Stato Italiano per questo tipo di violazioni (circa 3.500) ritenendo che in astratto non vi sono motivi per ritenere il nuovo rimedio compensativo sia privo di prospettive di riparazione appropriata per le doglianze proposte sulla base della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. In ogni caso ha specificato che non è pregiudicato un eventuale riesame della questione dell’effettività del rimedio in esame, in particolare in merito alla capacità dei giudici nazionali di fissare una giurisprudenza uniforme e compatibile con le esigenze della Convenzione e dell’esecuzione effettiva delle sue decisioni. Essa mantiene comunque la propria competenza di controllo finale per tutte le doglianze presentate da ricorrenti che, in base al principio di sussidiarietà, hanno esperito tutte le vie di ricorso interne disponibili (caso Stella ed altri contro Italia, sentenza del 16 settembre 2015, par. 62).

Le decisioni di merito intervenute sino alla data odierna (sia penali che civili) sono totalmente difformi tra loro e discordanti con i principi stabiliti dalla Corte Europea.

La nuova norma infatti è solo apparentemente chiara: se da un lato prescrive espressamente per la persona non più detenuta in carcere un termine di sei mesi, che decorre dal momento in cui ha finito di espiare la sua pena, dall’altro nulla dice per coloro che pur detenuti abbiano ottenuto un miglioramento della loro condizione.

Di fatto, la magistratura di sorveglianza si è orientata uniformemente sul principio dell’attualità del pregiudizio, che deve sussistere sia al momento della presentazione del reclamo che nel momento della decisione: in quest’ultimo caso, se il pregiudizio nelle more dell’istruttoria è venuto meno, il ricorrente è stato rimesso in termini per presentare ricorso al Tribunale Civile. Il che, evidentemente, incide molto su modalità e tempi del c.d. ristoro. La Corte di Cassazione con la sentenza della I sezione penale n. 43722 depositata in data 29 ottobre 2015, ha specificato invece che, quando la persona è detenuta non è necessaria l’attualità del pregiudizio e dunque la competenza rimane in capo al Magistrato di Sorveglianza “ sempre che - in termini generali - sia in corso l'esecuzione del medesimo decreto di cumulo e possa pertanto parlarsi di unicità del periodo detentivo, tuttora in atto (con riferimento alla data della domanda). Detto orientamento è stato confermato nelle pronunce successive

Il rimedio compensativo in esame non prevede invece alcun termine di prescrizione. Il decreto legge n. 92 ha fissato un termine di sei mesi dal momento della sua entrata in vigore (vale a dire il 28 dicembre 2014 dato che è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 28 giugno 2014) per tutti coloro che avevano subito in passato tali condizioni di detenzione. Ma va subito detto che questo termine in realtà è stato di soli quattro mesi, tenuto conto della data di pubblicazione della legge di conversione (20 agosto 2014). Inoltre, non è stato fissato un termine iniziale di decorrenza: in teoria anche la richiesta di risarcimento in relazione ad una detenzione subita in tempi remoti in violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo potrebbe essere oggetto del ricorso ex articolo 35 ter Ord.Pen.; ciò però potrebbe confliggere con le norme del codice civile in materia di prescrizioni dei diritti.

In effetti ciò è accaduto: la maggior parte delle decisioni emesse dai Tribunali Civili ha dichiarato la prescrizione in merito ai periodi anteriori al quinquennio decorrente dalla data di presentazione della domanda. Altre addirittura hanno fatto decorrere la prescrizione ai periodi anteriori al quinquennio decorrente dalla data di notifica del ricorso all’Amministrazione Penitenziaria. In questo caso appare evidente la non effettività della norma. Detta notifica su ordine del giudice, viene fatta a cura della parte o della cancelleria (a secondo dell’orientamento del magistrato) solo dopo il necessario decreto di fissazione dell’udienza camerale, che può essere emesso molti mesi dopo la presentazione de ricorso e privare cosi di effettiva tutela la domanda dell’interessato.

Peraltro in sede penale, tenuto conto dei frequenti casi in cui le pene contenute negli ordini di esecuzione ovvero nei provvedimenti di cumulo concretizzano carcerazioni per lunghi periodi, tale preclusione non opera, venendo considerati anche i periodi risalenti ad oltre cinque anni dalla presentazione della domanda.   

Per ciò che concerne invece il merito dei ricorsi, l’obiettivo prefissato dalla nuova normativa (sollecitata per non dire intimata dalla Corte di Strasburgo) risulta difficilmente raggiungibile. E questa appare una valutazione ottimistica. La prassi ha infatti già evidenziato la criticità del sistema.

Il rimedio si fonda innanzitutto sulla probatio diabolica che incombe sul detenuto, il quale deve rappresentare in modo minuzioso il pregiudizio asseritamente sofferto, pena l’inammissibilità ovvero il rigetto dell’atto di doglianza. Se il detenuto riesce ad assolvere a tale onere probatorio, il reclamo impatta con i dati e le notizie fornite dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) e dai Direttori degli Istituti Penitenziari chiamati in causa, che sono normalmente contrastanti con quanto lamentato dal detenuto.

Talvolta i giudici hanno fondato la loro decisione soltanto sulle relazioni fornite dal DAP asserendo che il ricorrente non aveva adempiuto al suo onere probatorio, disapplicando quanto statuito dai giudici di Strasburgo sul tema al par. 72 nella nota sentenza pilota Torreggiani, vale dire la “ necessità di contemperare l’applicazione rigorosa del principio dell’onere della prova in capo al ricorrente, visto che l’Amministrazione Penitenziaria è l’unica ad avere accesso alle informazioni che possono confermare o meno le doglianze contenute nel ricorso ”.    

Peraltro, i principi cristallizzati dalla giurisprudenza della Corte Europea non solo in quest’ultima sentenza ma anche nelle precedenti pronunce in questa richiamate, non hanno ad oggetto soltanto il sovraffollamento carcerario ma anche le condizioni di detenzione, la qualità delle infrastrutture e dei servizi in carcere.

I provvedimenti emessi sino ad oggi non hanno tenuto conto di tali principi, limitandosi la stragrande maggioranza dei magistrati soltanto ad un mero conteggio aritmetico dei cd “3 mq” disponibili per ciascun detenuto (spesso effettuato in maniera errata e frequentemente al lordo del mobilio presente in cella) senza valutare le altre doglianze. Peraltro esistono situazioni paradossali in cui per lo stesso istituto penitenziario, nel medesimo periodo di tempo nonché per lo stesso reparto detentivo, sono stati emessi provvedimenti sia di accoglimento che di rigetto dei ricorsi.

L’assenza poi di un reclamo nel merito innanzi al Tribunale Civile e la sussistenza dei noti paletti di inammissibilità nel ricorso per Cassazione rendono ulteriormente non effettivo il rimedio interno.  

Il sentire diffuso è di essere dunque di fronte ad un rimedio risarcitorio inefficace che avrà come ineludibile conseguenza, oltre l’aumento del carico di lavoro dei magistrati, la riproposizione di innumerevoli ricorsi alla CEDU. E l’ipotizzata maggiore tutela dei diritti del detenuto rischia di risolversi in una lunga posticipazione dell’attesa, e della speranza, di ottenere giustizia in relazione all’avvenuta la violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Avv. Walter De Agostino

Avvocati per la Tutela dei Diritti Umani in Italia